“Viaggiare: un incontro con l’alterità radicale” di Giulia Valerio

Nel mezzo del cammino della vita mi è arrivato un invito a compiere un viaggio che nulla aveva a che fare con quanto avevo pensato o sperimentato fino ad allora. Intorno ai quarant’anni, scrive Jung, si prepara una grande modificazione; (1) la personalità cerca e soffre nuovi equilibri, si appresta a rovesciare le proprie coordinate e a privilegiare il tempo del profondo, prendendo le distanze da quello del tempo.

Non si tratta di un movimento consapevole, ma di un accadimento.

A volte intorno a questa età cruciale è come “se alle vele mancasse il vento”: così viene descritta la situazione di un uomo benestante nel pieno delle sue realizzazioni professionali e familiari, ma catturato da noia, insofferenza, inquietudine. Si rivolge a Jung per cercare un nuovo cammino, che si rivelerà tortuoso e sorprendente. (2)

Nel nostro tempo, gli stadi della vita possono presentare un turning point tra i quaranta e i cinquant’anni, un po’ più avanti rispetto ai tempi di Dante. Le selve oscure si dislocano; tessere di mosaico inaspettate si aggiungono, compongono figure nuove di cui cogliere il disegno segreto. Ho più volte avuto l’impressione che da giovani ci si muove in una sorta di labirinto, velocemente e con ardore, costruendo, sperimentando, urtando gli spigoli vivi, confusi dalle rifrazioni; i sogni e le visioni della notte ne conoscono il senso e continuano a tracciare mappe misteriose. Ma un giorno le mura cadono e si disvela il giardino del nostro mandala, la geografia del nostro procedere.

Scopriamo allora che non il nostro Io, non noi abbiamo scelto e deciso guadi e passaggi: tutto ciò che progettiamo non accade mai, perché “all’inatteso solo un dio apre la via”, scrive Euripide alla fine delle sue cinque tragedie femminili. (3). Gli eventi accadono, nonostante noi stessi e le pianificazioni, gli equilibri, le difese e le misure. Tutti dettati da ragione e sensatezza, ma un giorno qualcosa di imprevedibile li sovverte. Il viaggio viene spesso scelto perché promette proprio questo: trasformazione e incontro, sollievo alla solitudine e alla noia, interruzione delle cattive infinità. I viaggi un tempo (si dice!) facevano dimenticare gli amori sbagliati, oggi sono mossi dal bisogno di un paradiso perduto dove tutte le mancanze vengano riparate da mani accoglienti – come nei viaggi organizzati, oppure dalla ricerca di una purezza perduta, di un luogo incontaminato che conservi l’essere umano e la natura come al tempo della creazione.

Per parte mia intorno ai miei quarant’anni non cercavo niente di tutto questo: avevo un figlio da crescere, la passione per il lavoro di terapeuta, il trasloco in una nuova città; inoltre un cammino individuativo guidato dalla passione per i miti greci, romani, religiosi, fin da bambina poneva i sassolini che mi facevano ritrovare i sentieri nel bosco intricato dell’esistenza.

Arrivò la possibilità di andare in un paese africano. Amici vi avevano abitato per 25 anni, ed ora volevano condividerlo con noi. Si trattava di una regione molto nota agli antropologi, ma io non lo sapevo: lo scoprii dopo. Opposi un rifiuto vivace e testardo: non potevo, non volevo, non rientrava nell’orizzonte dei miei interessi. Troppo, troppo impegnativo. Dove era lo spazio, nella mia vita, per un nuovo mondo?

Naturalmente, partii. Più ci si oppone vivacemente a qualcosa, maggiore è il pericolo di impatto: ci difendiamo da ciò che ci mette a rischio, di cui avvertiamo la potenza trasformativa. Misi ferree condizioni a me stessa: niente volontariato né cooperazione, in cui i nostri amici erano fortemente implicati, né progetti, né intrecci relazionali compromettenti. Di queste civiltà non conoscevo nulla, da un lato grazie alla pervicace cortina di diniego con cui sono stata occultate al nostro sguardo, dall’altro perché ero concentrata e centrata sulle coordinate della nostra cultura, che si estendevano dalle etimologie indoeuropee e sanscrite al diffondersi delle lingue romanze, dai racconti-pilastro dei miti di fondazione alla narrazione del dio-uomo cristiano, di provenienza mediorientale.

Nel Mysterium Coniunctionis Jung cita un testo alchemico di Michael Meier, vissuto a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento, in cui il pellegrino compie un viaggio mistico tra i quattro continenti, orientato dai punti cardinali. Dopo il nord europeo, l’ovest americano e l’est asiatico, divenuto conscio delle sue prime tre funzioni, si rivolge a sud, alla sua regione infera rappresentata dall’Africa. La più oscura e la più inconscia, sulla cui soglia un Mercurio d’oro e d’argento gli addita l’immagine della totalità. Solo attraversando il caldo torrido di questa regione incolta e sitibonda si viene iniziati, cotti nel fuoco infernale, nel calore del ventre del leviatano che fa perdere i capelli e rinascere glabri, implumi, neonati. Accanto alle rare sorgenti si accoppiano animali ibridi e umani grotteschi. Insuperabile descrizione dell’inconscio, commenta Jung: l’immersione nei suoi misteri è rischiosa fino a poter essere fatale. Il viaggiatore si accorge dolorosamente di poter perdere la propria vita, perché “è affar tuo quando brucia la casa del vicino”. Nell’unus mundus delle profondità siamo ad un tempo ospiti e invitati, commensali e vivanda (4)

Le proiezioni così archetipiche hanno ganci potenti: la possibilità, anzi la probabilità di andare incontro agli strati più profondi della psiche nelle regioni dove l’umanità è più antica, al “mistero trascendente e al paradosso dei processi psicoidi del simpatico e del parasimpatico” mi spaventava tantissimo. (5) Non me lo sono raccontata con queste parole, ma la paura era esattamente descritta. Temevo – sapevo? – che mi sarei trovata a contatto con qualcosa di essenziale, che avrebbe coinvolto le radici stesse della mia personalità, facendole tremare.

Ci attendeva la terra dei Dogon del Mali, che Marcel Griaule aveva conosciuto nel 1930. Arrivato nella piazza di Sangha, paese affacciato sull’orlo della leggendaria falesia di Bandiagara, si era trovato immerso nella festa della fine del lutto di Monsù il cacciatore, per cui erano uscite danzando centinaia di maschere per più giorni. (6) Lo  stupore di fronte alla ricchezza dei saperi mistici e spirituali di questa civiltà lo indusse a tornarci per tutta la vita, a fondare in Francia l’etnologia e a inaugurare uno sguardo su civiltà “non repertoriate” (7)  capace di coglierne lo spessore, l’autenticità, la modernità.

Al ritorno dal primo viaggio abbiamo fondato l’associazione di volontariato MetisAfrica, che costituisce per me una realtà straordinariamente viva e partecipata; quasi tutti gli anni sono tornata nel paese dogon per un mese, tre settimane, due mesi. Qualcosa aveva infranto tutti i miei “buoni” propositi. Ho scritto alcune volte di questa popolazione fuori dall’ordinario, e molto ho raccontato.(8) Ho incontrato una alterità radicale, non riconducibile alle nostre modalità, nemmeno a quelle tradizionali nostre del passato (anche se vengono fatti sforzi commoventi e distorti in questo senso). Mi sono scontrata con la difficoltà del poter raccontare chi non conosciamo e non ri-conosciamo: non abbiamo le parole per dirlo. Nominiamo il noto e l’iscritto, i colori del nostro arcobaleno, gli animali che ci circondano, le emozioni codificate, i sapori che gustiamo, i climi delle stagioni; attraverso il linguaggio esprimiamo senza accorgercene tutte le convinzioni, i dogmi e le credenze che diamo non solo per scontate ma per universali.

Proverò a raccontare questo viaggio, questa serie di lunghi viaggi, con modalità differenti, sinteticamente, un po’ accennando a ciò che mi ha più stupito, ma soprattutto cercando di rendere come questa formazione permanente abbia intaccato il mio modo di essere, di sognare, di avere cura della vita e delle persone. E poi alla partitura aggiungerò altri strumenti, circoambulando il tema. Un grande viaggio è come un sasso, una pietra piena di saggezza gettata nelle acque profonde dei nostri fluidi, che si allarga in centri concentrici con moto inarrestabile.

“Ma qui non c’è niente”, mi disse l’amico del cuore al suo primo viaggio in terra dei Dogon, arrivato a Sangha. Era un pomeriggio brumoso, in cui il vento del deserto offuscava il cielo di polvere, rendendo confusi i confini e irreali le cose. Qualche albero di baobab, nessuna strada asfaltata, non esistono negozi o luoghi per noi riconoscibili. Non c’è mare, né verdi prati, né fiumi d’acqua, né montagne. Non ci sono luci, né oggetti inutili. Qualche automobile, qualche moto. Poche. Qui ci si sposta a piedi. E a piedi andiamo poco sotto, verso sera, a trovare l’indovino che legge le risposte che la piccola volpe pallida lascia sulle tavole geomantiche disegnate sulla sabbia. Qui la storia viene scritta dalle divinità, tramite i segni degli animali, delle conchiglie, delle posizioni degli insetti, delle noci di palma: a noi il compito di decifrare, di leggere e comprendere. Non sono mai esistiti popoli senza scrittura, scrive Tobie Nathan; la domanda è mal posta: chi scrive? E chi legge? (9) Salutiamo l’indovino e poi piano torniamo a casa mentre scende, improvvisa, la sera, e il cielo vibra di una stellata così vicina che pare di toccarla. Le donne Dogon staccano le stelle per far giocare i loro bambini e farli addormentare sereni, poi le rimettono nelle vie del cielo. (10) Torniamo a casa, e il mio compagno, commosso e commovendomi, dice: “Ma qui c’è tutto”! E anche per lui, quella sera, iniziò un viaggio senza possibile ritorno.

I Dogon hanno migrato otto secoli fa da regioni fertili e verdeggianti, ricche di cacciagione e di frutti, per raggiungere un luogo aspro e inospite in cui poter mantenere, indisturbati, il loro modo di vivere. Solo dove c’è poco visibile, dove la natura è popolata di presenze si può vedere l’invisibile, ci spiegano. E da noi restano stupefatti: come fate ancora a scorgerlo, con tutto il visibile che costruite? I due piani improvvisamente, fin dal primo impatto, si sovvertono: il “tutto” che qui splende è trascendente, luminoso, ricco di senso. Naturalmente non tutti lo vedono, anzi. Le reazioni degli amici che sono venuti con noi negli anni sono state le più disparate. Intanto è curioso ascoltare le motivazioni del viaggio: molti sono attratti dai racconti, desiderano qualcosa di nuovo, sperano di capire subito la diversità, di carpire i segreti di saggezza e felicità che questo popolo vive accanto ad una condizione che per noi sarebbe soltanto di miseria. Altri mandano i figli irrisolti, gli amici in difficoltà, i malati da guarire, come se il viaggio in queste terre fosse di per sé taumaturgico. Altri ancora vogliono venire a “fare del bene”, senza nemmeno sapere di cosa “loro” potrebbero avere bisogno: certo – come abbiamo appreso nel tempo – non delle nostre cose.

Frustrazione e fascinazione si alternano in un’altalena difficile da contenere. Abbiamo assistito a inaspettati scompensi, terrori atavici, panici notturni di persone di per sé equilibrate, in patria. Sospetti di essere derubati oppure visti come “un euro che cammina” si confondono con appassionate affiliazioni di chi subito “si sente dogon” e rinnega se stesso; critiche feroci a chi li ha studiati si sommano all’avidità nell’impadronirsi di riti e terapie. Altri invece, tra cui molti giovani, si accostano con riserbo attento e disarmano i gesti, le parole e i comportamenti per lasciarsi prendere per mano, invitare dove non erano mai stati.

Con rara finezza, i nostri ospiti sanno scegliere, e ci educano via via negli anni, passo dopo passo. La vita mi ha invitato a scegliere di tornare continuamente in questo luogo, a frequentarlo in maniera intensiva, approfondendo e lasciandomi coinvolgere seguendo tappe, gradini e stadi di un lungo percorso. La mia naturale estensività estrovertita ha incrociato verticalità e profondità, ed è stata “inchiodata” e convinta dalla realtà del sentimento, evocato dalla capacità relazionale di queste popolazioni, che prima degli edifici hanno voluto costruire l’essere umano, il suo tessuto, le sue connessioni.

La mia passione per la mitologia e gli sfondi archetipici in questi viaggi si è imbattuta, incontrata e scontrata con l’esperienza viva. (11) Se la nostra coscienza è lineare e progressiva, procedendo per scarti e scelte lungo una via “evolutiva”, il mondo psichico che ci abita è annessivo, sincretistico, amplificativo, circolare. La coscienza di questa popolazione procede come la nostra psiche: aggiunge e non separa, tiene insieme e non elimina, coglie la vita dei singoli all’interno di un’ampia visione che dona senso e collega tutti gli elementi. Alberi e animali sono i nostri doppi, le sorgenti hanno proprietari che suggeriscono come trattarle e trattenerle, i terreni non si vendono ma si donano perché noi ne siamo solo inquilini, il verbo avere non conosce il tempo del futuro perché ciò che si ha viene subito ridistribuito: le negoziazioni sono continue e garantiscono i flussi visibili e invisibili (12) che tengono coesa la tela di ragno che tutti ci unisce vibrando ad ogni piccolo movimento. (13)  Le formiche pellegrine che camminano in fila indiana portano i dolori e le malattie giù nelle acque profonde accanto a cui costruiscono i loro condomini, perché solo i flussi sotterranei sanno stemperarle (se sappiamo affidarle a loro); i sogni ogni mattino guidano i giorni, i lavori, gli amori, i viaggi; le parole che pungono e tagliano e rattristano non si nominano per non offendere chi ascolta e non mettere in fuga i guardiani della casa, suoi protettori. (14) I giochi dei bambini non sono i nostri: non corrono per vincere ma si danno tutti la mano per non lasciare indietro nessuno, non si può strappare la bandiera al rivale ma gliela si offre, e infine vengono riscritte le regole di rubamazzetto: ognuno avrà il mazzo più ricco a turno, indipendentemente dalle carte che ha.

I bambini grandi non sono gelosi dei piccoli, che invece li invidiano perché più autonomi (che insight su tutta la nostra psicologia che ipostatizza come felicità piena la fusionalità e la dipendenza!), la cultura orale è più preziosa e formante di quella scritta, che rende sterili e automatici; (15) non si chiede nulla direttamente ma si offre tutto quello che si ha. Non si tratta di descrizioni “innamorate” di una viaggiatrice occasionale, ma di saperi appresi per esperienza, che coincidono con le dinamiche psichiche che la psicologia del profondo inaugura e studia, di cui Jung è portatore. Non ho potuto dimenticare che la teoria sulla proiezione nasce dalla lettura del caso del soldato Oji, nigeriano, che si sentì chiamare dall’albero che portava il suo nome (di cui lui portava il nome) e non poteva restare in caserma a quel richiamo, a quella “vocazione”. (16) Jung rimase così colpito da ipotizzare le fasi della proiezione proprio a partire da questo racconto. (17)  La sua attenzione agli antenati, alle presenze che abitano i luoghi, la profonda fiducia nella sapienza del sogno e della visione hanno trovato sostanza e realtà lungo il mio peregrinare, non scelto e non voluto, in una realtà così lontana dalla nostra. Così prossima e convincente, allo stesso tempo.

Ho imparato anche con un sollievo indicibile la preziosità della vecchiaia, considerata l’età più ricca; non la forza è il valore da ammirare, ma l’esperienza: chi ha più giorni di vita è tesoro prezioso per tutti. Crescere e continuare a vivere non produce indebolimento, ma robustezza della personalità e saggezza; la morte è il passaggio ad una dimensione che sta qui accanto, in continua osmosi: da tempo non riesco più a parlare al passato di chi ha lasciato questo “primo mondo”, e ne avverto la presenza.

Questi passaggi, riassunti con una sintesi un po’ impressionistica, sono stati tutti autentiche trasformazioni, che hanno comportato fatica, stupore e lavoro. I primi anni ho dovuto fare i conti quotidianamente con la mia (nostra) attitudine alla prepotenza, all’ingerenza, a creare rapporti dispari (io ho e tu non hai, io so e tu non sai, oppure viceversa!). Il lavoro proseguiva anche nella notte, in cui dovevo fare i conti con presenze maschili tiranniche e l’incapacità di essere pienamente donna, con fierezza. Meriterebbe un capitolo a parte la sorpresa della meraviglia del mondo femminile, di come sia rispettato e tutelato, a differenza di molte nostre stereotipie.(18) Il mio Io è stato lavorato da questi viaggi come il mare lavora i coralli. Sono stata pulita, attraversata; i pori sono stati tutti aperti, e il rapporto con la psiche, con la saggezza del profondo (che non riesco più a chiamare inconscio) è diventata un’evidenza, irrinunciabile. Nello stesso tempo la vita si è tinta (come la tintura alchemica) di incanto, rendendo prezioso ogni istante, anche se complesso e difficile.

Sono stati i Dogon del Mali o è stata l’esperienza del viaggio, che ha reso tutta la vita un pellegrinaggio fatto di tappe, guadi, iniziazioni a se stessi, trasparenze?

Concludo narrando un mio sogno, che contiene molte risposte. Premetto che da alcuni anni, da quando siamo stati insigniti del titolo di “decenti, ora siete diventati decenti (!)”, donne uomini e bambini vengono a trovarci per condividere problemi di salute, affettivi, esistenziali. Li accogliamo in gruppo, in ‘consultazione’, e li ascoltiamo; in alcuni giorni decine e decine di persone siedono nel giardino o nella strada accanto alla casa, all’ombra dei grandi antichi baobab, aspettandoci con paziente educazione. Un giorno un uomo mi fa chiamare in disparte; Apam nostro amico e iniziatore traduce per me: l’uomo, nel pieno della vita, è affetto da lebbra, e mi chiede cosa potremmo fare per lui. Guardo le sue mani, mangiate dal morbo. Ha una grande dignità, pari al mio smarrimento. Ricordo una struttura lungo il Niger che tratta questa malattia, e gli propongo un trasporto dedicato, perché non può utilizzare i mezzi pubblici di trasporto. È contento e grato, accetta e si accorderà con Apam quando saremo partiti. È il momento del commiato e mi chiedo: come salutarlo? L’uomo sta diritto, composto e non tende la mano; io gli tendo la mia, ce le stringiamo e ci salutiamo, con un sorriso.

Quello che mi è accaduto nel momento successivo è stata un’onda s-travolgente di paura, tessuta di medioevale terrore di fronte alla gravità e al contagio di questa malattia. Il mio compagno arriva (ha gli occhi lunghi), mi prende gentilmente e mi porta in bagno. Lavati le mani, mi dice, ma stai tranquilla: non si prende così. Ma il terremoto interiore è continuato la sera e tutta la notte, accompagnato da sintomi fisici; poi, finalmente, è arrivato un sogno.

“Sono nella pianura desertica ai piedi della falesia, di fronte ad Apam. Alcuni uomini e donne hanno acceso fuochi sparsi e attendono di essere ricevuti. Continuiamo il nostro lavoro di accoglienza. A un certo punto Apam mi fa cenno, e io mi volto: dietro di me stanno spuntando piantine ovunque, tenere e verdi, in una felice primavera”.

Non ho mai rivisto quell’uomo, né si è più fatto vivo; penso sia venuto per me, forse spirito o angelo, per contagiarmi e fare fiorire il mio deserto.

Giulia Valerio

 


Bibliografia

 

(1) Jung C.G., Gli stadi della vita (1930/31), in Opere, vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino, 1976 e 1994, pp. 415-432;

(2) Jung C.G., Analisi dei sogni. Seminario tenuto nel 1928-30, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, p. 315;

(3) Euripide, Coro di chiusura delle tragedie femminili: Alcesti, Ecuba, Elena, Andromaca, Le Troiane. In altre traduzioni: “Molte sono le forme del divino, molte sono le risoluzioni inattese dei celesti; quello che si credeva non si è compiuto, un dio trovò la strada per l’impossibile”;

(4) Jung C.G., Mysterium coniunctionis, in Opere, vol. XIV*, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, p. 200 e ss;

(5) ibidem, p. 203;

(6) Griaule M., Dio d’acqua. Incontri con Ogotemmeli, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 229. Michel Leiris, che faceva parte della spedizione, scrive alla moglie: “Qui la religione ha un senso, perché alla religione si richiede qualcosa di preciso. L’amore ha un senso perché è nascosto. La bellezza ne ha perché è involontaria. La stupidità non esiste perché non è questione di intelligenza. Nulla è perduto e nulla manca, perché non è questione di efficienza. Non c’è decrepitezza, né nascita perché tutto si sgrana in un ciclo continuo”, in Miroir de l’Afrique, Gallimard, Paris, 1996;

(7) Nathan T., fondatore del dispositivo etnoclinico delle consultazioni e direttore in Francia del Centre Devereux (Université Paris 8 Saint-Denis), afferma: “L’Etnopsichiatria, per prima, ha saputo accogliere la parola specifica delle popolazioni non repertoriate, di questi marginali senza rappresentanti. Ha saputo non squalificare la loro esperienza, riconoscerne la forza, il pensiero, la verità”;

(8 ) Valerio G., Agi Koleli, racconto di viaggio, Metisafrica, Verona, 2002; “Là dove il mito vive” in Quaderni di Metis, Moretti e Vitale, Brescia, 2003; “Storia di incontri” in Yenei, vedere un altro mondo, Perdisa, Bologna, 2008; “Incrinare la solitudine, ovvero l’arte della tessitura, in Sessi e culture: intessere le differenze, Edita, Parma 2008; “La maternità presso i Dogon del Mali – Una riflessione sulla fertilità come forma di ricchezza”, convegno Non solo madre non sola, Verona, 2007; Storie di amicizie, di cura e di ricerca del profondo: la conoscenza dei Dogon del Mali, seminario tenuto a Zurigo per il Gruppo Turm, 2013; “Chi popola la nostra notte”, in Alogon, 2016;

(9) Nathan T., Les âmes errantes, L’Iconoclaste, Paris, 2017, p. 233;

(10) Così Griaule M., “Jeux dogon” in Travaux et mémoires de l’Institut d’ethnologie, t. XXXII, Paris, 1938: “Un tempo quando il cielo era molto vicino alla terra, le donne Dogon staccavano le stelle e le davano ai bambini. Poi, quando questi erano stanchi di giocare, le mamme raccoglievano gli astri e li rimettevano nella volta celeste”. Devo questo ed altri approfondimenti di Pedagogia Africana alle ricerche di R. Bartolucci, che ringrazio;

(11) Valerio G., “Là dove il mito” vive in Quaderni di Metis, Moretti e Vitali, Bergamo, 2003;

(12) “In Africa ciascuno dà a tutti, ma anche riceve da tutti. Vi è fra gli uomini uno scambio continuo, un movimento incessante di flussi invisibili. Ed è necessario che sia così perché l’ordine dell’universo si conservi”, scrive Marcel Griaule in Dio d’acqua;

(13) “L’universo africano è come una tela di ragno: non si può toccare il più piccolo dei suoi elementi senza far vibrare l’insieme: tutto è legato assieme e solidale; tutto concorre a formare un’unità.” Erny P., L’enfant dans la pensée traditionelle de l’Afrique noire, L’Harmattan, Paris, 1990, p. 16;

(14) “Molti nomi sono banditi dalla conversazione e sostituiti da eufemismi, perché possono offendere in quanto cattivi presagi: il fuoco, gli aghi, le scintille, la pentola, il colore nero, tutto ciò che ferisce, brucia o rattrista, tutto ciò che allude alla vita sessuale o sconvolgere l’interlocutore o ancor più i testimoni presenti nella casa e ovunque, in un mondo pieno di guardiani invisibili – i’assassen”. Servier J., Les techniques de l’Invisible, L’homme et l’Invisible **, Éd. du Rocher, Monaco, 1994, p. 25;

(15) Nathan T. in Les âmes errantes, op. cit. p. 229 cita Platone, Fedro: “La scrittura produrrà l’oblio nelle anime facendo loro trascurare la memoria: confidando nella scrittura sarà dal fuori, dal fondo di se stessi che cercheranno di suscitare i loro ricordi […] quando avranno molto letto senza imparare, si crederanno molto sapienti, e non saranno nella maggior parte dei casi che degli ignoranti dal commercio scomodo, perché si crederanno sapienti senza esserlo”;

(16) Talbot P.A., In the shadow of the bush, Doran, New York e Heinemann, London, 1912, pp. 31-32;

(17 ) Jung C.G., Spirito Mercurio, in Opere, vol. 13, Bollati Boringhieri, Torino, 1997, pp. 229-237;

(18) Ne parla Pisani L., che ha vissuto decenni accanto a loro, guadagnandosene la fiducia, l’amicizia, la familiarità in Bambini Dogon. Nascere e crescere sull’altopiano di Bandiagara, Armando, Roma, 2007.

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