“Il rapporto con l’Alterità”: Gianluca Minella intervista Giulia Valerio.

Quello dei migranti è un tema di grande attualità. Da un lato i muri, gli steccati, i fili spinati, le divisioni, la paura dell’altro che viene a interrogare profondamente la nostra identità, dall’altro l’accoglienza, l’ospitalità, l’apertura allo straniero che bussa ai nostri confini.

Freud, il padre della psicoanalisi, anticipando alcune tematiche che saranno molto care alla Klein, parla del bambino lattante che rigurgita e “sputa fuori” tutto ciò che gli fa male, che è fonte di sofferenza e dispiacere, come di una modalità difensiva originaria atta a “mettere fuori” qualcosa che non riesce a “tenere dentro”, che in qualche modo non può gestire e governare: un dolore, una vertigine, una eccitazione troppo intensa. Alla base dell’odio, per la psicoanalisi ci sarebbe questo movimento primordiale e viscerale di “espulsione”.

Il nemico interno viene sputato fuori, esteriorizzato e proiettato all’esterno. Questa modalità arcaica di neutralizzare il nemico interno e di allontanarlo all’esterno è da un lato il fondamento della paranoia ma allo stesso tempo una necessità vitale di tracciare un primo confine quale fondamento dell’identità corporea e psicologica. Se infatti non c’è confine tra me e l’altro c’è schizofrenia, follia, dissoluzione, non-vita.

Commoventi sono peraltro le riflessioni che Jean Luc Nancy, un filosofo francese che a partire dalla sua esperienza di trapiantato di cuore, nella sua opera L’intruso (2000), elabora sul tema del razzismo e dello straniero. Un cuore straniero viene ad abitare il suo corpo di filosofo occidentale bianco. E lui si chiede: di chi è questo cuore? È un cuore zingaro? Di giovane? Di donna africana? Grazie a questo cuore lui potrà di nuovo vivere e pensare. Ma affinché il trapianto si renda possibile, affinché non si generi una crisi di rigetto, è necessario abbassare le difese immunitarie, mettere in pericolo l’identità corporea riducendo così le difese dell’organismo. Senza abbassamento della difesa immunologica non può essere messa in atto nessuna politica di ospitalità.

Questa suggestione incarnata nella testimonianza viva del filosofo ci porta alla conclusione inevitabile che per ospitare l’altro è necessario mettere in discussione le nostre pretese identitarie, la nostra stessa vita. Queste riflessioni ci inducono a pensare che la paura dell’altro alberga prima di tutto dentro di noi, che ha a che fare con le nostre ombre più profonde ossia con ciò che noi non riusciamo ancora ad integrare, accettare, simbolizzare e per questo rimane arcaico, primitivo e quindi non accessibile alla coscienza. Dal punto di vista psicologico si può ragionevolmente pensare che un eccesso di difese, così come una loro carenza, siano alla base della malattia mentale, almeno dalla prospettiva psicoanalitica dalla quale stiamo osservando questo tema.

Giulia Valerio è psicoterapeuta, docente, membro del direttivo e responsabile della Scuola Li.S.T.A (Scuola di specializzazione in psicoterapia ad orientamento junghiano – www.scuolalista.it) di Milano e si occupa di Etnoclinica. Frequenta da molti anni i Dogon del Mali con i quali ha stretto rapporti di profonda amicizia, interessata in modo particolare al dialogo tra i nostri sistemi occidentali di cura del disagio mentale e la loro medicina tradizionale. È co-fondatrice di Metis, presidente di MetisAfrica Onlus, per cui tiene seminari e conduce gruppi di supervisione e di formazione dal 1993 nonché progetti di ricerca e di cooperazione a specchio nel paese Dogon. Ha fondato, in collaborazione con il Servizio di Neuropsichiatria Infantile di Verona, il “Centro di aiuto per il bambino e l’adolescente migrante”, per cui oggi dirige le consultazioni etnocliniche e molte altre attività. È socia analista dell’A.R.P.A. e membro della IAAP. Ha pubblicato diversi saggi e articoli. Vive e lavora a Verona.

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